venerdì 6 febbraio 2015

Al di là del Tevere

di Emilia Zazza




Quando ero piccola soffrivo spesso di febbroni a temperature assurde: superavo frequentemente i 40° e mi riempivano di tachipirina e antibiotici (oltre alle scientifiche pezzature di acqua ghiacciata e alcol). Il mio stomaco si rivoltava, la bocca diventava di sabbia e a quel punto mio padre, quando rientrava dal lavoro, mi portava i pescetti di liquirizia. Ora non voglio che pensiate che mio padre fosse (sia) una persona premurosa e attenta. Tutt'altro. E infatti io di questo episodio ho un ricordo neutro. Come di una cosa come un'altra che succedeva. Ma anche da adulta, insomma, sono golosissima di liquirizia, dura, morbida, salata, dolce. Tutta. Sarà perché a casa lo siamo un po' tutti. Comunque come dicevo mio padre comprava questi pescetti di liquirizia racchiusi in una bustina gialla, in un negozio di Roma piuttosto noto almeno per quelli del mio quartiere. Il negozio si chiama Castroni ed è pieno di leccornìe e dolcezze varie. Era a un passo da casa e proprio sulla strada che faceva, che fa, mio padre tornando dal lavoro.

Mio padre la percorre tutti i giorni, 4 volte al giorno, su e giù, avanti e indietro, in bici o a piedi, da 40 anni. Casa nostra è scelta con una cura e attenzione scientifica: a casa mia quello che piace, diverte, perde sempre con quello che è utile. Il piacere, insomma, non batte ma il dovere, almeno in famiglia. E contro una casa bella, grande luminosa, investimento un po' più rischioso, i miei ne hanno comprata una esattamente di fronte e più buia, piccola no, ma quanto basta per 4 persone. Anzi, quanto non basta, l'importanza era che la casa non richiedesse un sacrificio eccessivo, appunto, e che fosse comoda per mia madre, che lavorava in un ministero a Piazza Barberini (quindi metro A) e mio padre che lavorava, lavora, appunto, a piazza della Libertà. La scelta cadde su un appartamento al terzo piano di Via Cola di Rienzo all'altezza di Piazza Risorgimento. Per chi non conosce Roma o la strada, Via Cola di Rienzo inizia a Piazza Risorgimento e finisce a Piazza della Libertà, e viceversa.

Prati, il quartiere, è considerato signorile ma quella in realtà è la parte più commerciale. Via Cola di Rienzo, infatti, nel corso degli anni, si è riempita di negozi, quando meno eleganti, quando più. Accanto ai negozi, nascosti all'interno dei palazzi, Via Cola di Rienzo brulica di avvocati, come mio padre. Un maestro, si definisce. Io non lo so. Io ho preso la laurea che voleva e me ne sono andata. Prima di andarmene, però ho percorso quella strada in lungo e in largo un numero indefinito di volte. Pensate al numero più grande che riuscite a immaginare, pensate a un bambino che allarga le braccia per rispondere alla domanda: “quanto vuoi bene alla mamma?”, ecco, io di più.


A metà strada, là dove ora c'è un punto vendita Nike, e prima ancora Mango e prima ancora non so, avevano aperto il primo fast food italiano. Prima di McDonald's a Roma, prima di Eataly di Farinetti, a Via Cola di Rienzo c'era Italy&Italy e le mie prima uscite da sola (anche se mio padre si ostinava a venire anche lui, dicendo che si fermava un secondo e se ne andava subito e invece si prendeva un'insalata, lamentandosi della qualità). E il mio liceo era appena dopo lo studio di mio padre, alla fine della strada, proprio di fronte al Tevere. Sì, perché al di là di Piazza della Libertà, sempre per chi non conosce Roma, o la strada, c'è il Tevere e il Ponte della Libertà che porta a Piazza del Popolo. Non mi era concesso di attraversarlo. Per moltissimi anni quello che potevo fare il pomeriggio era arrivare allo studio di mio padre e tornare. Con delle pause in mezzo. Italy&Italy, ma anche una libreria, di quelle piccole, non era nemmeno tanto piccola, ma non apparteneva a nessuna catena, o sarà che era un periodo in cui le catene di librerie non c'erano ancora, o se c'erano erano comunque librerie e non supermercati. Comunque ci passavo un sacco di tempo. Ora c'è un negozio di abbigliamento per adolescenti. Poi quando avrei potuto attraversare quel ponte, non riuscivo a farlo. Nel periodo dell'Università studiavo fino alle 6, le 7 di pomeriggio, passavo tutto il giorno in casa, non frequentavo, insomma non è che mi piacesse moltissimo quello che studiavo, però appunto a casa, mia, piacere e dovere erano collocati in luoghi molto precisi, comunque finito in qualche modo quello che dovevo fare, uscivo. Via Cola di Rienzo a quell'ora, in qualsiasi stagione, è sempre gremita di gente, sembra un formicaio su cui qualcuno ha messo per sbaglio un piede. E all'angolo con via Fabio Massimo c'era sempre un signore che vendeva le caldarroste o i lupini, a seconda della stagione. Stava lì tutto il giorno, ma a quell'ora, alle sue spalle c'era sempre la figlia, stringeva al petto dei libri. Io arrivavo fino al Ponte della Libertà,. A quel punto potevo andare dove volevo, avevo il permesso di farlo e avevo fatto ciò che dovevo. Ma non riuscivo ad attraversarlo. Mal d'aria. Soffrivo la mancanza di terra sotto ai piedi. Poi mi è passato. Chissà.

Vivere di sponda

di Federico Fiume







Io il fiume lo vedo dall’alto, da casa mia  La casa è sopra una collina, il fiume lì sotto,  alle porte della città. Ancora non è entrato, ancora non è il Tevere dei romani. Sta nel tempo della  metamorfosi tra fiume di campagna e vena acquea di Roma. Lo vedo da lontano ma distinguo il suo  livello, il suo crescere con le piogge inghiottendo rive e alberi, di cui talvolta lascia intravedere solo la chioma.

Come tutti i fiumi Tevere scorre e ogni tanto si concede qualche ‘scorrieria’, “s’allarga
un po’”, come si dice da queste parti, perché è uno grosso e se lo può permettere. Sulla destra della mia visuale, aguzzando lo sguardo, da un po’ di tempo distinguo qualche baracca di cartone e teli di  plastica, un filo di fumo nelle giornate più fredde. Sono i più che mai provvisori abitanti delle rive, gente abituata a vivere di sponda. Stanno vicino a lui, al fiume, perché non li caccia così di sovente  come i carabinieri o la polizia. Le baracche infatti si vedono a intermittenza, a seconda degli sgomberi, svolti dalle ‘forse’ dell’ordine con periodicità saltellante. La loro vita la immagino soltanto, talvolta l’annuso, quando il vento spira da est e basta quello a rimettere nella giusta  prospettiva i miei momenti di lamento. Le cose non girano mai per il verso giusto e se ne avrebbe  da ridire, ma quelli per cui girano proprio al contrario ti fanno sentire fortunato e magari anche un  po’ stronzo a pretender altro dal destino. Loro ignorano il mio sguardo quanto il fiume, che a maggior ragione, ignora anche me. Ma io so che sta lì, che non si sposterà, che la sua acqua scorre sempre e quest’idea mi conforta, mi fa compagnia.

 Mi piace avere il fiume a portata di sguardo, mi  piace la sua superiorità alle cose umane, il suo guardare la nostra storia con la pacata e saggia  indifferenza di chi la sa lunga, molto lunga e ben conosce l’impermanenza delle cose. Mi piace  l’idea che stia sempre lì ma che sia sempre in movimento, fermo come un Buddha sotto l’albero e  contemporaneamente padrone di un movimento impossibile da fermare. Questa sua impermanente  stabilità, o stabile impermanenza, mi affascina. Del resto non è un caso che i fiumi abbiano sempre  ispirato gli umani, loro lontani parenti nel comune destino dello scorrimento. Per noi c’è un punto  d’inizio e una fine e anche per il fiume, dalla sorgente al mare. Un destino comune, non fosse che  per il fiume il percorso si rinnova sempre. Immagino sia perché lui la sa molto, molto più lunga di noi.

Le rive tutte giuste



di Diletta Parlangeli


Io vengo da una città di fiume. E dico vengo, e non “sono nata”, perché ci tengo a precisare. Firenze è una città piccina. E dico piccina perché lì, dall’alto della parlata senza consonanti, tutto viene visto con un po’ di distacco dai diminutivi: l’omino, ‘i caffeino, i’ cicchino, ‘i piedino. Anche l’Arno, non è che sia questa cosa enorme. Eppure, da quel letto di fiume piccino, educa alla separazione.
Proprio pensando a qualcosa che riguardasse il Tevere, ho ricordato una cosa che ho scritto anni fa, finita in un libro. L’ho ricercata, e diceva così:

“Bisogna difendersi dalle città con i fiumi. Perché c'è sempre qualcuno che sta sulla riva giusta, e qualcuno su quella sbagliata”

E il fiume a Firenze serve davvero la doppiezza. Questo “io sto di qua, e te di là, e non abbiamo molto a che spartire, porta pazienza”. E si capisce subito.
Quando ti dicono: “La deve andare diladdarno”. Dilà. Rispetto a dove? E quanto di là?
All’inizio non sai, ma poi capisci che Firenze funziona così per davvero: c’è la parte giusta, quella di Palazzo Vecchio, del Duomo, di Piazza della Signoria, piazza Repubblica, San Lorenzo.
E poi c’è l’altro di là, l’Oltrarno (che poi sarebbe la parte più bella). Non è solo un esercizio, è una divisione che regge davvero, uno stare di qua e di là che conta sul serio, in qualche modo. Interpretato ognuno come crede, se crede.

Qui il fiume è un’altra cosa. Lo attraversi di continuo su e giù, da una parte all’altra stando attentissima ai ponti che se ne sbagli uno e non lo imbrocchi chissà quanti altri ne devi aspettare e metti che finisci in fondo a Castel Sant’Angelo poi devi girare laggiù tornare indietro in quella curva dietro San Pietro che è un casino e porca mignotta, ho sbagliato di nuovo.

Urbanisticamente parlando, con i suoi lungotevere, è un incubo almeno quasi quanto le famose grandi arterie di Roma. Ma non divide. Sì, va bene, c’è Trastevere, che come concetto sarebbe l’Oltrarno. Ma non basta. Il Tevere adesso non divide.
Angoscia, per carità. Disorienta, ci mancherebbe. Ma non divide.
D’altronde, ma cosa vuoi dividere a Roma, che è tutto, e tutto insieme. La gente mica ci fa caso qui. Mica si parla coi diminutivi, qui. Qui si gira e ci si sbatte su e giù, da una parte all’altra, di corsa, senza respirare. Roba che quando vedi il fiume ti vien voglia di frenare e goderti lo spettacolo. La parte di fiume che passa per il centro – beh, io quella conosco – la sera, è uno spettacolo senza fine. Se sei a piedi anche se cammini di corsa ti fermi un secondo, al centro preciso di un ponte (uno a caso), e ti metti all’incrocio dei venti. Un secondo.

E sarà impopolare da dire in questa sede, ma a Roma puoi vivere anche senza fiume. Io sto in un quartiere che il Tevere, se non vuoi, non lo vedi manco di striscio. Ora hanno trovato un laghetto, pure bello, ma che c’entra.
Quindi qui, qui a Roma dico, le rive sono tutte giuste.

(foto di Simone Crescenzo dalla terrazza del Biondo Tevere, febbraio 2015)

Sul fiume con Ranxerox

di Giancarlo Castelli




Eravamo nel tempo di mezzo e come spesso accade quando un periodo finisce e uno comincia, non ci capivamo nulla. Entravamo frikkettoni e ribelli al Festival dei poeti di Castelporziano e uscivamo punk all'Uonna club, quello dove i Lizard King si menavano prima con le bande rivali e poi, una volta sbaragliate tutte quelle, cominciavano tra di loro. “Uno sguardo estetico è dire poco”, sentenziò il Gogò al baretto vicino alle scuole bianche che bianche non erano mai state e anzi erano ricoperte da un vivido color vomito peraltro pure scrostato ma sotto niente bianco a sottolineare che quella era una leggenda (del resto anche il bar della Lesbica era meta continua per la curiosità di cogliere un gesto che giustificasse almeno quell'insolito comportamento ma nessuno trovò mai soddisfazione neppure al più vago sospetto. Nemmeno oggi). “In che senso? “, chiese un po' allarmato Augustarello . “Nel senso che è finita l'epoca delle passioni popolari del dopoguerra e stiamo passando in maniera un po' acerba in un'era un po' più adulta”, rispose il Gogò che aveva il soprannome del soprannome nel senso che lui si chiamava Gomez (di soprannome) e gli amici gli avevano fatto il diminutivo. C'era l'Estate romana di un assessore giovane e spesso col cappello sulle ventitrè che si chiamava Renato Nicolini e i giovani, i vecchi e chiunque andavano spesso a vedere i film al centro, all'aperto e aggratis.

Di qua la saga di Franco e Ciccio, di là il Napoleon di Abel Gance: solo l'imbarazzo della scelta. Il futuro era rappresentato dai monitor televisivi a nido d'ape disseminati come quadri in queste nuove arene dell'incognito: Massenzio, Colosseo, Eur, Villa Ada. Come se non bastasse , nuove suggestioni musicali piovevano a cascata. Il punk aveva rimescolato tutto e quindi quelli degli anni '80 suonavano gli anni '60 e quelli degli anni '60 suonavano gli anni '80 (i '70 erano aboliti, tornarono anni dopo). Spunti di futuro erano visibili sulle riviste e su Frigidaire, quello di Pazienza, Tamburini, Scòzzari, Red Vinyle, quello che stroncava gli album un attimo dopo la pubblicazione. E poi, fashion e Vogue-teppista, antropologia delle Brigate rosse, elogio della sofferenza e del piacere. “Andiamo a Massenzio?”, propose Bambacione. “Che c'è stasera?”. “Non lo so. Devo mette benzina”. Self service. Sto per mettere la banconota. Una figura esce dal buio (era sera): “Aspetta aspetta!”. “Perché?”. Prende e apre la cassa del self service e tira fuori una mazzetta da 10mila lire. “Non volevo fregare pure i tua”. “Ah”. Se ne va. Mettiamo i soldi nella fessura. Facciamo il pieno. Riapriamo la cassa e riprendiamo i soldi. “Andiamo a Massenzio?”. “Ci andiamo dopo”.

E poi venne il Tevere. La prima volta lo vidi in un fumetto di Ranxerox, quello di Tamburini e Liberatore. “Ponte Garibaldi, ore 20.30: a quest’ora l’aria è così densa di monossido di carbonio da poter quasi udire nei polmoni della gente il fruscio delle cellule cancerose che proliferano allegramente come spermatozoi nei testicoli di un ragazzo in buona salute” . Nelle sue acque vicino all'Isola Tiberina galleggiavano pezzi di automobili, rottami e scarti delle città. Persino il relitto di un elicottero sotto Ponte Sisto. Del resto, in una città ormai stratificata a livelli, il Tevere inevitabilmente occupava quello più basso. E i livelli più alti, dove si passeggiava ignari e decadenti e col fashion a posto, erano fatti proprio in modo che non solo quei gradi dell'esistenza non si toccassero ma nemmeno si potessero vedere.

Il Tevere, papà e le mie fidanzate

di Massimiliano Di Giorgio





I primi ricordi del Tevere non sono i miei, sono quelli di mio padre. Mio padre che impara a nuotare nel fiume, negli anni Trenta, dalle parti della stazione di Magliana Vecchia. Mio padre che salva un ragazzino che sta affogando: e siccome quello si agita, mentre lui lo cinge da dietro, gli dà un calcio e per caso gli fa esplodere una specie di grosso foruncolo, ma grosso!, che aveva sulla chiappa. Mio padre che con gli amici ruba dei grossi cocomeri e per riportarli a casa li getta, e si getta, nel fiume, spingendoli contro corrente fino al Trullo. Mio padre adolescente, dopo la Guerra, che si improvvisa barcarolo e traghetta da una riva all’altra passeggeri – il ponte non c’è più, l’hanno bombardato – facendoli pagare.
(Nella mia mitologia familiare, e paterna in particolare,  il Tevere ha sempre occupato un posto importante, insieme alla Guerra. Un misto tra le avventure di Hucleberry Finn e Guerra d’Eroi)

Per un bel po’ d’anni ho vissuto a Ostia. Ci ho vissuto così tanto che se dovessi dire da dove vengo, in una Roma fatta di rioni e quartieri e borgate, non potrei non dire: vengo da Ostia. E per essere pignoli: vengo da Ostia Ponente, tra la stazione e via dei Promontori: lì vicino Ostia finisce e dopo un po’ inizia la pineta di Pianabella).
Il nome Ostia, dicono, viene da Ostium, che in latino significa bocca, porta d’ingresso e appunto foce del fiume, per estensione, foce del Tevere. Ma il rapporto col Tevere di chi abita oggi a Ostia è zero, è nulla, non vale niente.
Eppure, il fiume porta sedimenti – pochi, ormai, perché nella loro corsa verso il mare vengono bloccati da cave e dighe, ed anche per questo che l’erosione della costa non si ferma e le spiagge si accorciano.
Il fiume porta inquinamento – anche se meno, molto meno, che negli anni 70, quando era vietato farsi il bagno in parecchi posti: ma alla fine, noi ragazzini che a Ostia facevamo pure le vacanze, non resistevamo al richiamo del mare, pur se zozzo.
Il fiume porta barche: tante, ormeggiate nel più grande porto turistico del Mediterraneo - e anche il più abusivo - quello di Fiumara Grande. E ancora adesso, quando percorro via Tancredi Chiaraluce, una strada che passa tra i campi, il depuratore e la riva sinistra del Tevere, guardo meravigliato gli alberi delle barche che spuntano dall’argine.

Non so dove mio padre portasse le sue fidanzate o comunque le ragazze che gli piacevano.
Io le ho sempre portate a Fiumara, a guardare scorrere il fiume, a vedere i bilancioni abbandonati, attraversando il villaggio desolato e desolante che sorge lì accanto. Un ammasso di baracche, in pratica, dove però arrivava l’autobus, c’era (c’è ancora?) il capolinea dello 01.
Non era certo un bel posto, se uno si aspetta paesaggi da cartolina, ma per me ha sempre avuto un certo fascino, soprattutto col mare mosso.
Chiamatela estetica del brutto, se volete.
Non a caso lì vicino c’hanno ammazzato Pasolini, e gli hanno pure costruito un monumento alla memoria brutto, ma così brutto, che c’è voluto pure un certo sforzo, secondo me, per inventarselo (qualche anno dopo a Ostia, in una piazzetta che è un po’ il salotto buono della borghesia compradora di quartiere, ne hanno eretto un altro, di monumento: ma è brutto pure quello).
Dall’altra parte del fiume c’è Isola Sacra, uno dei posti più orridi del litorale romano, dove sotto le villettacce abusive sorte a grappoli negli anni 70 c’è un gran pezzo di storia e archeologia importante della Roma Imperiale. E ringrazio sempre il cielo di non essere finito ad abitarci: anche i miei avevano comprato un terreno, con l’idea prima o poi di costruirci. Ma alla fine lo vendettero, per comprare la casa dove abitavamo.

Però, lì vicino, c’è anche Tor San Michele, una torre michelangiolesca occupata a lungo dall’Aeronautica militare e oggi praticamente abbandonata. E risalendo la foce ci sono gli scavi di Ostia Antica e il Castello di Giulio II col suo borgo: un castello vero - anche se le merlature sono state aggiunte in seguito - costruito sul corso del fiume come antica dogana. Solo che poi il Tevere, dopo una grande alluvione, a metà del ‘500, ha cambiato corso. E ora il castello se ne sta lì, in bella mostra, come una specie di gigante addormentato.

Non so se alle mie fidanzate sia mai piaciuta, Fiumara. Probabilmente erano innamorate di me o distratte dalla mia fluente parlantina. Però, l’ultima che ci ho portato, e che all’epoca non parlava ancora perfettamente italiano - no, non è di Acilia: è francese  - mi ha guardato con uno sguardo inconfondibile e in cuor suo ha pensato: guarda ndo cazzo m’ha portato questo. Però mi ama ancora, e ama anche il Tevere. Anche se non è mai voluta andare ad abitare a Ostia.



Dei nati sui fiumi di serie B


di Massimo Bernardi



Qui dietro scorre verso il mare il celebre fiume Tevere, il fiume sul quale è nata Roma. Roma. Che è anche la mia città, anche se spesso mi ha trattato come un cittadino di serie zeta, come un figliastro di madre non molto nota. A volte mi ha fatto sentire parto di una posto qualsiasi, un inferno qualsiasi, un paradiso malposto qualsiasi ... ma non figlio apprezzato di quella che dovrebbe essere la mia città. Ed il Tevere, in realtà, non mi ha mai adottato, se non svogliatamente carezzato, qualche volta, come si fa ad un cane che si avvicina scodinzolando ma al quale, fondamentalmente non tieni più di tanto. Perché si, è vero, io sono nato sul fiume. Ho vissuto accanto al fiume la maggior parte dei miei anni. Tuttora lo guardo, quando torno verso la casa di mio padre, a volte immaginando ed ogni tanto ricordando cose. Lo vedo, sporco come sempre, stretto, infame. Sul fiume ho vissuto i miei primi anni di paura ed allegria. Di preoccupazione ... come quando mia madre mi faceva correre giù dalle scale per arrivare trafelato dietro l'esile figura di mia nonna Marcella, che abbracciavo frenando d'improvviso la mia corsa ed il mio impeto per non farla preoccupare. E lei, che per un secondo si impauriva di quei passi affrettati dietro di lei poi mi riconosceva, si scioglieva in un sorriso dolcissimo e mi circondava con le sue mani, troppo grosse per una donna così piccola,mani che finivano in braccia piene di vene a vista, come quelle dei cavalli. “Che fai qua,amore mio? So' 'scita adesso da casa de mamma tua ….” “Niente nò, te volevo solo salutà!” “Ma che nse semo salutati tesoretto mio?” E mentre mi baciava la fronte da 7enne io, senza che se ne accorgesse, la facevo volgere di novanta gradi dalla direzione intrapresa e la spingevo delicatamente a camminare verso il sentiero di terra che si allungava su, in leggera salita, sino alla via Tiburtina. E mi parlava gentilmente di cose di cui non ricordo neanche una parola, stringendo il rosario della Madonna, mentre io mi voltavo verso mia madre che oramai lontana, dalla finestra, strillava e mi faceva gesti con le mani che chiedevano, a me, di non allontanarmi troppo e, per lei, di lasciarla andare, una volta che fosse giunta sulla via principale. La voce ed il carattere di mia madre erano noti in tutto il quartiere. Mi verrebbe quasi da dire in tutto il quadrante est della capitale. Me la ricordo ancora quella voce altissima e quegli occhi verdi pieni di ironia e sarcasmo. E tutti che guardavano, dalle altre finestre e la blandivano per non farsela nemica “Hai fatto bene, Natalì, te stavo pe' chiamà pe' ditte ce stava annà verso er fiume” “Nte proccupà, ce pensano i mii fiji “ Che fondamentalmente equivaleva ad un meno diretto “Fatti i cazzi tuoi” Si, perchè nonna, nata nel 1900, tenue, mingherlina, devota e perennemente preoccupata, mentre scendeva dalle scale del bizzarro palazzone della Solvay ove abitavo accanto al fiume, tendeva oramai sempre ad indirizzarsi verso di lui, invece di tenere barra a dritta verso la via Tiburtina, dove “l'auto” (il bus) 163 l'avrebbe ricondotta a casa. Sarebbe morta di lì a poco, smemorata ed incapace di rendersi conto anche degli affetti che aveva intorno. Proprio come in quei giorni in cui, china, sguardo verso il basso camminava adagio ma decisa verso il fiume e mia madre pronta ad impartire ordini ai suoi figli di andarla a recuperare e ad accompagnarla verso la strada di casa. Si, perchè non c'era neanche l'argine sul fiume, l'incubo di tutte le mamme che avevano i figli piccoli a giocare per la strada, troppo attirati da quella massa d'acqua minacciosa, lenta, fredda, sporca ma anche tanto promettente di tanto possibile divertimento e brivido tipico dell'infanzia matta della periferia di ogni città. Me lo ricordo ancora mio padre nei giorni di pioggia continua : “E' scito fori fiume!” Dalla finestra lo stretto alveo vomitava ondate di acqua marrone che si andavano a spargere sui campi intorno, per arrivare a pochi metri dal palazzo di edilizia superpopolare dove abitavamo, coi vigili del fuoco ed i padri di famiglia a pochi metri dall'acqua, preoccupati, pronti a prendere figli e moglie ed a scappare verso i parenti disseminati da qualche parte nella banlieu romana di case abusive della zona est.

Perché è vero, io sono nato sul fiume ma quel fiume non è il Tevere.
Quello, per noi nati sull' Aniene, era più che altro un nome sui libri di geografia e le ciarle di adulti. Era un cugino tronfio e chiacchierone, era il coatto di un'altra borgata che veniva a fare, ogni tanto, il padrone a casa tua. Non voglio dire fosse antipatico, il Tevere. Ma il problema per noi era di sentirsi sempre dei cittadini di serie B anche per colpa sua. Come per tutti quelli nati sugli affluenti dei fiumi principali, che osservano i giganti prendersi sempre la scena e vedersi restituite solo poche foto nelle quali tu sei all'angolo estremo dell'inquadratura, magari con un gomito o la spalla di qualcuno che copre parzialmente il tuo volto e nessuno che chiederà ma di sapere tu chi cazzo sei. Nessuno si ricorda il nome degli affluenti del Danubio, del Po. Nessuno pensa che gli abitanti del Sesia o dello Stura siano degni di un qualche interesse. Fiumi di serie B, gente di serie B. Ecco perché ogni tanto, nonostante io abbia superato abbondantemente la maggior parte del tempo della mia vita, l'aver vissuto una vita intera in questa città non mi ha fatto sentire particolarmente figlio di questa città e di quel fiume tanto decantato e maledetto, come dice il barcarolo.

Un fiume che mi ha guardato indifferente ogni volta che io mi sono chinato sui suoi bordi per sentirlo meglio da vicino e capire quanto di me era possibile rintracciare sulle sue acque placide e dure come certi sguardi di romani stronzi. Ed era inutile ricordargli di mia madre trasteverina ... un fiume che ha visto troppa gente nella sua vita, un fiume che si è girato dall'altra parte anche quando mi sporgevo verso di lui nella speranza mi cullasse nel pensiero che tutto sarebbe andato bene mentre attendevo la venuta al mondo di mio figlio Sebastian, proprio lì, sull'isola dei Fatebenefratelli. Eppure ne avevamo di storie da raccontare, noi nati in mezzo ai campi accanto al fiume dove le industrie chimiche della Tiburtina Valley interravano bidoni di vernici colorate e mortali, che noi dissotterravamo ed usavamo per giocare e dipingere ogni cosa, persino le cortecce dei pini che, chissà perchè, dopo un po' venivan tutte via, lasciando carne vegetale viva alla mercè degli elementi. Tra uno sfasciacarrozze a picco sul greto, cui rubare il ferro da andare a rivendere a ricettatori pezzi di merda, tenendo a bada cani ringhiosi ed una casa abbandonata a pochi metri dall'acqua dove portare la povera sventurata di turno che, in ogni borgata che si rispetti, insegna a giovani uomini cosa significa godere, in mezzo alla sporcizia ed ai resti secchi e polverosi dell'ultima inondazione, tirando bastonate a gruppetti di topi curiosi ed aggressivi che oramai avevano paura di niente.

Tra funerali di capifamiglia, tutti operai della stessa fabbrica, morti di tumore ed asma, tutti troppo giovani, che era persino divenuta una consuetudine giocare coi loro figli, nel giardinetto della chiesa, mentre tutti intorno piangevano. Cosa avrà pensato mio padre, in quel lungo periodo di decenni in cui è pian piano divenuto vecchio, poi vecchissimo, da solo, senza neanche la compagnia di uno solo che abbia condiviso con lui quei giorni di ricostruzione di una nazione fondata, più che sul lavoro, sullo sfruttamento senza ritegno di una natura violentata e di povera gente pronta a tutto pur di poter acchiappare uno stipendio e una speranza per un futuro un po' migliore , se non per loro, per i propri figli?

Cenando qui anni or sono, la prima volta, mi sono ricordato l'orgoglio di noi dimenticati figli dei fiumi di serie b, quando leggevamo delle nostre gesta sui libri di un tipo strano ed angoloso, del quale capivamo ancora troppo poco ma che poi influenzò parecchio il nostro futuro percorso di vita ... quando invece quello era già morto. Parlava proprio di noi. E se non fossimo stati sufficientemente contenti di leggerci nelle sue righe come fossimo una classe sociale eletta, piuttosto che i reietti del dopoguerra, trovavamo ancora maggiore orgoglio nel vedere impressi su libri di grande importanza per la letteratura italiana proprio i luoghi ove eravamo nati. Non solo Donna Olimpia, dunque, che all'epoca non sapevamo neanche dove fosse … ma anche Ponte Mammolo, Pietralata, il ponte, il fiume, le baracche, il carcere, Rebibbia. Le fabbriche. Interminabili partite di calcio e decine di palloni portati via dal fiume che se ne andava, indifferente, verso Montesacro.

E allora, forse, se unisco le mie memorie di bimbo e di adolescente all'idea, che ancor m'è cara, di quell'uomo venuto da lontano, che ha vissuto e respirato dove io ho vissuto e respirato, e che proprio in questo luogo ove siamo oggi ha segnato la sua ultima tappa in vita ed i suoi ultimi momenti da uomo libero, ecco forse in qualche modo sento di poter percepire il biondo Tevere di un calore forse, per me, inconsueto ed in qualche modo inaspettato. Come se la vita di un uomo che io non ho mai personalmente conosciuto, in qualche modo, mi avesse restituito, magari solo per un attimo, la dignità di figlio legittimo di una città alla quale sono legato indissolubilmente, non più figlio di un fiume di serie b, di una città fatta di marginali, di quella terra desolata e povera che , in realtà, è tuttora e nella quale sono nato, oramai quasi tutta una vita fa.



5 Febbraio 2015, Barcaroli controcorrente: omaggio al Tevere


A seguire pubblichiamo tutti  i racconti degli autori che hanno partecipato alla serata che l'associazione Dasteros e il Biondo Tevere hanno dedicato ai Barcaroli controcorrente. Un evento che prende spunto dalle immagini dei fotografi Alberto Urbinati e Simone Crescenzo che per un anno hanno monitorato, dragato, attraversato le rive e le acque del fiume di Roma durante l'edizione 2013-2014 del laboratorio avanzato di reportage con Fausto Podavini. 



La parata di Gigi

di Daniela Amenta

Gigi nacque il primo aprile del 1960 al quinto piano del palazzo più alto di viale Marconi, quello che guardava alla Basilica di San Paolo che d'estate al tramonto era tutto un bagliore d'oro e pareva che i santi sul frontespizio della chiesa t'entrassero in casa tanto erano profonde le ombre. Nacque e fu una gran festa, figlio der sor Tommaso Paraggi, tassinaro, ex primo tacco della Sala Pichetti e di sora Gina che sapeva cucì anche gli abiti da sposa con la Singer, bella mora che la gente se voltava a fischià quando passava strizzata nella camicetta de jersey. Nel palazzo fu attaccato il fiocco azzurro e si fece festa nell'androne con tanto di liquore Strega e ciambellone. L'ascensore ancora non ci stava e quel giorno, il giorno degli scherzi, fu un andirivieni su e giù per le scale, fino al quinto piano. Chi portava calzini, chi sciarpette, chi tutine di spugna. Qualcuno per regalo portò un pallone bello, di cuoio, arancione come un'aragosta. Er sor Tommaso si riprese dall'emozione solo a sera, quando il sole calò su San Paolo e l'aria divenne dolce come zucchero filato anche tra gli ingranaggi d'acciaio del Gazometro.
“Sei padre, Tomma', mo' tocca sgobba' er doppio”, si ripeteva. A viale Marconi, l'unico quartiere senza nome di Roma e forse del mondo, passavano ancora poche auto in quegli anni di boom. Un reticolo di vie dedicate a scienziati e inventori e il Tevere a lambire strade ancora sconnesse che calavano ripide verso gli argini selvaggi di canne, malva e platani maestosi con le radici piantate nell'acqua e nella fanga.

Era piccolo Gigi, un pupetto, con degli occhi azzurri inspiegabili, che mamma e papà  erano scuri de pelle e de capelli. Piccolo come un cucciolo di un animale strano. Ma Gina c'aveva latte ed energia e sarebbe diventato grande,  avrebbe preso a calci il pallone e la vita. Grosso  e bello come il portiere Bob Lovati se lo immaginava Tommaso guardandolo dormire tranquillo nella culla, un colosso sarebbe stato che parava tutto, ma tutto, anche i dolori.
E invece Gigi Paraggi non crebbe mai. La sentenza arrivò un anno dopo, ospedale Bambino Gesù. Mamma e papà arrivarono al Gianicolo un'ora prima della visita col medico, raccomandati dall'assessore Gastaldi che ogni tanto Tommaso scorazzava sul taxi come autista privato. Si fermarono a guardare lo spettacolo di marionette, Tommaso comprò un cartoccio de fusaje ma Gina non ne toccò manco mezza. Erano tutte e due tristissimi con Gigi  silenzioso nella carrozzina a guardare incantato il cielo azzurro, slavato come i suoi occhi e il volo radente dei gabbiani. E mentre Pulcinella prendeva a bastonate il diavolo, Gina iniziò a piangere piano, senza un singhiozzo.
“Che c'avrà 'sto figlio, Tomma'? Che male abbiamo fatto? Ma che è colpa mia?”
“Ma che stai a di', non c'ha gnente. Niente, n'è gnente. Vedrai che ce danno le punture di calcio e tempo sei mesi cresce in un botto. Questo – e indicò il figlio col vestitino buono e la copertina ricamata – ce diventa un gigante come il portiere Lovati. Vedrai, vedrai amore mio”.


A viale Marconi o diventavi coatto, o soccombevi. Prendevi sganassoni che levate anche perché la peggio gioventù stava là. Quelli della Magliana ce stavano, e certi fasci torvi e incazzati, pippati, pronti a tutto. Mannaggia a loro. Grossi e 'nfami, appostati al bar Supplizi, che era un covo de casino, e se non ti sapevi difendere te la vedevi brutta.

L'idolo nostro fu quindi Gigi Paraggi che era un nano, alto come noi regazzini. Gigi non era propriamente nano, aveva una malattia che si chiama osteogenesi imperfetta e che gli rendeva le ossa piccole e fragili, e gli occhi di un indaco nebbioso. Poi si scoprì che anche un re importante stava come Gigi nostro, e il jazzista  francese Petrucciani, l'uomo che faceva ridere il pianoforte e impazzire le donne, l'artista che suonava tutta la fretta del mondo perché non c'aveva tempo da perde. Anche Gigi si meritava dischi di diamante fuso all'antracite e fiori di pesco di giardini. Meritava cose bellissime, insomma. Mortaretti de stelle.

Invece Gigi nacque a viale Marconi. E a viale Marconi ce stavamo noi, solo noi, co' le bolle in faccia, le magliette strette strette alla moda de Raffaella Carrà e sta puzza de Tevere a levacce er sonno. Meno male che c'era lui con noi,  a riconoscere le bestie di fiume, i punti più pericolosi dell'argine, a indicarci i sentieri tra le canne.  Era intelligentissimo Gigi nostro. Essere superiore nonostante la statura minuscola. Una lingua da crotalo. Sveglio, cazzuto. cattivo ma equo. E nessuno si permetteva de pijallo in giro quando passeggiava nel quartiere senza nome con un pallone color aragosta, grande quasi come lui. 

Il sogno di Gigi era di poter giocare nel derby calcistico Marconi-Ostiense. Giocare  in porta. Ma questo, nonostante venisse rispettato pure dalla banda del bar Supplizi, non gli fu mai consentito. Cosicché Gigi si inventò la squadra sua, che poi fu la nostra. e ci schierò a noialtri regazzini nell'epocale sfida che si svolse nella marana teverina, precisamente al campetto infernale Lungotevere di Pietra Papa, all'epoca un posto tanto lercio e zozzo che anche gli zingari erano scappati dopo l'incendio di una roulotte e la morte di un bambino come noi, Muhamed si chiamava, ancora me lo ricordo.

E in questo scenario di guerra giocammo, con l'umido del Tevere fin dentro gli scarpini. Il match dei match si disputò in notturna, con il contributo di quattro Fiat e un par de motorini che ci spararono addosso le luci dei fari per illuminare il rettangolo di giuoco.

Eravamo un 4-4-2 classico, detti la squadra der nano, tutti nani, anni compresi tra 11 e 13, vestiti di rosso perché Gigi disse: "dovemo sembrà diavoli e marziani, esseri imprendibili e un po' malvagi, e sfonnalli psicologicamente". In porta il nostro Lev Jashin coi guanti di lana acquistati all'Upim che "la lana trattiene la sfera di cuoio che se incolla ar tessuto".

Contro avevamo il Real San Paolo, che s'allenava in basilica. Gente di 17 anni e più. Finì con un pareggio, e quindi vittoria per noi, e trionfo per Gigi Paraggi l'immenso che parò un corner radente e infido. La sua prima, ultima parata. Gigi se ne morì come avevano detto i dottori, che non sarebbe mai arrivato ai 30anni. Ne aveva 29 il giorno della partita. Ne uscì come un eroe e a quelli del bar Supplizi glielo disse chiaro. Disse: "d'ora in poi a tre palmi dal culo de 'sti regazzini, sennò ve faccio magna' er core”. E quelli zitti.

Nella chiesa Santi Cosma e Damiano, che non era una chiesa ma un garage, partecipammo tutti al funerale. Andammo a baciare Tommaso che s'era fatto vecchio per il mal di cuore e sora Gina che era diventata secca secca, quasi come il figlio, e sembrava venire dalla luna, oramai.

Don Angelo ci permise di fare la messa beat. Cantammo per lui, il nostro amato Gigi, la canzone “Il testamento di Tito” con Don Angelo che s'attappava le orecchie per via del testo molto audace. Sulla bara coi fiori, sistemammo i guantoni e un pallone a scacchi bianchi e neri, che quelli arancioni non andavano più di moda.
Fu il mio primo amichetto morto, il più piccolo e il più grande. Che è morto, però, lo capisco solo oggi. Che c'è un cielo d'indaco nebbioso.